BOOSTER GOLD ONE MILLION
Testi di Geoff Johns e Jeff Katz, disegni di Dan Jurgens e Norm Rapmund
32 pagine, colore, spillato, formato 16.8×25.7, $ 2.99
DC Comics
Una serie il cui unico scopo è palesemente quello di accontentare i più accaniti nerd con la bava alla bocca, dimostra finalmente quali sono i limiti di un simile progetto. Un finale deludente per un ciclo di storie che, tutto sommato, era stato a suo modo piacevole.
articolo di : Fabio Graziano
L’attuale collana di Booster Gold è un esperimento che può funzionare solo in un mercato malato come quello dei comics americani. Se negli anni ’80 questo personaggio aveva una profonda ragion d’essere come parodia dell’avida società reaganiana, oggi Geoff Johns e Jeff Katz ne fanno un mero feticcio per lettori nostalgici. Booster non è più un eroe-imprenditore alla caccia del soldo facile, ma un “eternauta” in viaggio per lo spazio-tempo DC, in un costante clima di revival e di strizzate d’occhio agli appassionati. Se fino ad ora la storia aveva comunque regalato un ritmo piacevole ed alcuni efficaci colpi di scena, questo episodio finale del ciclo di Johns e Katz lascia alquanto freddini e delusi. Sembra quasi che, dopo il frettoloso numero precedente, vero e proprio finale della saga in corso d’opera, gli autori avessero sentito la necessità di un epilogo più ad ampio respiro. Il risultato è a dir poco gelido, con una storia nella quale in pratica non accade nulla se non nelle ultimissime tavole, dove ha luogo un colpo di scena conciliatore e che, per giunta, definirei quantomeno piantato per aria.
I disegni di Dan Jurgens, futuro autore a tutto tondo della collana, sono appena sufficienti. L’artista americano, recentemente tornato in piena auge alla DC, è ormai pigro e involuto rispetto al decente professionista di quindici anni fa. Certo, non sempre una storia raccontata col “pilota automatico” è un male, specie pensando alle opere di tanti penciler che, pur di sperimentare, dimenticano che la dote primaria di un disegnatore di fumetti dovrebbe essere la chiarezza di storytelling grafico. A peggiorare gravemente la situazione sono senz’altro le chine di Norm Rapmund, dal pennello secco e arcigno, che male accompagnano il tratto retrò di Jurgens.
Una serie il cui unico scopo è palesemente quello di accontentare i più accaniti nerd con la bava alla bocca, dimostra finalmente quali sono i limiti di un simile progetto. Quando l’obiettivo non è quello di raccontare una buona storia, ma di autocompiacersi, prima o poi i nodi vengono al pettine. In questo caso, gli sceneggiatori hanno perso l’occasione per concludere in modo coerente il loro regno. Enterteinment, where art thou?
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