Introduzione
Credo di poter affermare, con umano e fisiologico dubbio, che furono proprio gli anni ’80, gli anni in cui i supereroi cominciarono a flirtare con il tristo mietitore. Correggetemi se sbaglio, ma la prima morte eccellente non fu quella di Barry Allen in “Crisis on Infinite Earth”?
Poi toccò a Supergirl, anzi per lei Perez e Wolfman andarono oltre, inscenando addirittura il primo funerale eccellente, con il toccante discorso di Kal-El alla fine dell’albo.
E’ pur vero che, rimanendo nell’ambito della DC Comics, innumerevoli sono state le volte in cui Superman, Batman o uno qualsiasi, tra i membri della Lega della Giustizia, finivano in una bara di vetro circondati da fiori e da colleghi in calzamaglia tutti intenti a piangere.
Ma erano altri tempi, erano gli anni ’50, non c’era troppa attenzione per certe cose, e poi c’era sempre un universo parallelo per giustificare il tutto.
Negli anni ’80, pessimi per la moda, ma innovativi per i comics, il concetto del fumetto supereroico è stato riformulato, sono stati aggiunti nuovi elementi narrativi come la sconfitta, le conseguenze degli scontri sui civili e sulle loro vite, (memorabile per esempio l’agenzia Damage Control del Marvel Universe) la paura e lo scetticismo per le maschere è stato aggiunto, se non in casi estremi sostituito, alla venerazione delle stesse, e infine la morte.
Ma sto divagando.
A volte tra la morte e la resurrezione il passo è breve, come riporta la tradizione cristiana “bastano appena tre giorni”, e in questi anni, in ambito fumettistico ovvio, abbiamo assistito, ad una moltitudine di morti e altrettante rinascite. Alcune ben architettate, altre decisamente pessime.
CAPITAN AMERICA : IL SOLDATO D’INVERNO
Collana Supereroi – le grandi saghe n. 79
Testi di Ed Brubacker -disegni di Steve Epting
192 pagine , a colori, brossurato, formato 18×28, Euro 9,99
Panini Comics – Corriere della Sera
di Gennaro Cardillo
Ed Brubaker, durante la sua osannata gestione di Capitan America, ha trattato il mistico argomento più volte.
Il revisionismo ormai impera nel mondo dei fumetti, bisogna che le calzamaglie stiano al passo con i tempi, se non vogliono soccombere sotto il tallone di altri media, ed almeno in questo bisogna essere onesti, sono pochi gli autori di rilievo che non hanno capito la lezione del professor A. Moore.
Nel suo “Soldato d’inverno” (il primo degli archi narrativi della “run”), Brubaker ci parla del ritorno di Bucky Barnes.
Questa miniserie, per i più schizzinosi (tipo me) potrà non essere il massimo della coerenza e della digeribilità, ma funziona.
L’idea che anche Bucky riviva, dopo che le acque nelle quali precipita l’abbiano mandato in uno stato di ibernazione, risulta un deja-vu: proprio per Capitan America s’era visto una cosa simile decenni prima.
Però funziona, perché Brubaker compensa la fantascienza con un ottimo lavoro di sceneggiatura, e un buon sviluppo psicologico dei suoi personaggi.
Oserei affermare che la parola chiave per l’arco narrativo “Soldato d’inverno” è “struggente”, lo scrittore ne incarta ogni dialogo, ogni riquadro; la sceneggiatura per intero, è satura di un riuscito tormento.
Ecco perché funziona, perché è tanto improbabile e fantascientifica la sua rinascita immersa nella più moderna concezione della “spy-story”, quanto è realistico il suo tormento.
Lo struggimento non è nella morte di Bucky, non è su questo aspetto che Brubaker lavora, ma nel suo ritorno. Il suo ritorno come inconsapevole arma, nelle mani delle persone che aveva giurato di combattere.
Il dossier, che finisce nelle mani di Cap grazie al cubo cosmico, e racconta il travaglio di Bucky, giustifica da solo l’onda di consensi che ha toccato questo ciclo narrativo.
Tutta l’architettura narrativa di questa “run” si basa su un abuso dell’ingrediente spionistico; Brubaker si serve di uno SHIELD estremizzato, un’elivelivolo quasi promosso ad “Enterprise”, con risorse tecnologiche troppo spesso poco credibili, eppure tutto ciò risulta scorrevole, godibile, proprio per l’eccellente lavoro svolto sull’aspetto psicologico dei personaggi, in particolare su Capitan America, del quale è impossibile non cogliere il tormento per l’amico creduto morto, e al contempo la tensione, la paura di ammettere di averlo ritrovato nelle vesti di un nemico.
La storia risulta pure “geniale”, come anche il restyling di Bucky, liberato dall’immagine della giovane spalla del Capitano, il ruolo propagandistico, appioppatogli da Lee e Kirby, a vantaggio di una visione più consona alle esigenze dei nuovi lettori. Il Bucky di Brubaker infatti è un soldato ben addestrato, e, più che è una spalla, è l’uomo nell’ombra che svolge tutti quei lavori più sporchi che non potevano essere attribuiti al supersoldato nei cinegiornali.
Il dinamico duo di artisti che illustrano la storia regge bene la bandiera della qualità; di Epting e Lark ormai si è già detto di tutto e di più, il loro stile quasi non si distingue, diretti discendenti della scuola del tratto realista di A. Ross e Co. già visto nel sottovalutato “Vendicatori contro Invasori” per esempio.
Per “Soldato d’inverno” e le storie successive, vale la pena spendere un bel po di soldini, Brubaker introduce altri personaggi, sconosciuti forse ai lettori più giovani, Union Jack, Spitfire, che sono due supereroi britannici già attivi con Cap e gli Invasori durante la grande guerra mondiale, Spitfire è la stessa persona, ringiovanita dopo una trasfusione del “sangue” della prima Torcia Umana, mentre Union Jack in realtà è Joseph Chapman, vecchio amico della famiglia Falsworth ( la famiglia di Lord Montgomery Falsworth, il primo Union Jack, che appunto combatté i nazisti insieme a Cap alla sorella Spitfire e gli altri Invasori).
Chi non ha mai letto la gestione di Byrne di Capitan America e di Namor, the Sub mariner, magari ha difficoltà a comprendere di cosa sto parlando.
Ottimo anche il Teschio Rosso, ridotto ad una voce nella testa di Lukin, e la caccia multipla a quest’ultimo da parte dello Shield (orfano di Nick Fury), di Cap, di Bucky, dello stesso Fury (ormai latitante dopo la pessima guerra segreta) e di Crossbones e Sin, (che nel frattempo hanno scoperto che il russo è il mandante dell’assassino del loro mentore); queste pagine sono così godibili perché al timone c’è Brubaker, e non la politica editoriale Marvel, sono così ricercate perché abbiamo il Brubaker “Autore” piuttosto che il Brubaker “Dipendente”.
Da lì a poco infatti, il coinvolgimento di tutte le testate Marvel nel secondo dei eventi programmati (Civil War) imporrà agli autori di entrare in una sorta di narrazione bloccata, e delegherà a questi ultimi la fatica di collimare le storie portate avanti finora all’evento comune, nel caso di Brubaker, alla morte del suo personaggio; il merchandising vuole la morte di Cap alla fine di Civil War (nota bene: ho trovato il finale di Civil War quasi troppo veloce e rocambolesco, quasi troppo confusionario, per essere considerata un degno epilogo di una delle trame più originali e attuali che Millar abbia creato).
Dunque è compito di Brubaker di dare a Cap una giusta pomposa e commerciabile morte.
“Tamburi di guerra” è il tentativo di Brubaker di schierarsi… La miniserie che nasce risente dei paletti imposti, il Teschio torna ad essere un disco rotto, e la morte di Capitan America, assassinato a colpi di arma da fuoco, sarebbe stata pure decente se fosse rimasta tale, purtroppo la Marvel alla fine degli eventi narrati nel Dark Reign, ne vuole il ritorno, vuole che Steve Rogers sia un prima fila per la neonata “Heroic Age”, e il povero scrittore deve rimettersi a fare i salti mortali per rielaborare quel che aveva scritto a distanza di nemmeno un anno.
Non era affatto facile, ed infatti il Brubaker “Dipendente” fallisce.
Si ricorre alla tecnologia, la stessa tecnologia di cui parlo più su, che nelle altre storie può risultare un fastidio sostenibile, se c’è una storia, se c’è uno spessore psicologico, ma in “Reborn” al di fuori di macchinari fantascientifici, non c’è altro.
C’è solo una pistola a tachioni (quella pistola usata dall’Agente 13 mentre gli sparava bruciapelo), che non ha ucciso Steve, ma gli ha spedito l’anima a spasso nel tempo, c’è solo il Teschio Rosso che in realtà non vuole la morte di Cap, (avrò letto male io in Tamburi di Guerra o in mille altre sue storie) ma vuole il suo corpo (ma al momento d’essere sparato dal Soldato d’Inverno, il Teschio, non usava già un corpo clonato di Steve? Perché ora vuole l’originale?), c’è solo una non ben identificata macchina che pescherà poi Cap dal flusso del tempo (anima e corpo?!) in quel di Latveria, così come noi si va a pesca di trote.
Se per “Soldato D’inverno” la parola chiave è geniale, per “Reborn” la parola chiave è “Disastro”.
A completare l’opera di decadimento ci pensa Hitch, che disegna il tutto, con una superficialità e sciatteria, che fa pensare che in realtà, in stampa ci sono finite per sbaglio le tavole dello storyboard.
Quindi, per chiudere, il modo giusto per celebrare il compleanno di Cap, è di rifugiarsi nella lettura di “Soldato D’inverno” (che oltre all’edizione più economica , Grandi Saghe n° 79, è stato originariamente pubblicato in appendice a Thor Panini Comics), e se avete soldi da spendere prendete anche le miniserie immediatamente successive, come già detto meritevoli, raccolte in un “omnibus” che è andato a ruba, e che nonostante tutto sembra essere il modo più economico per leggere l’intera opera senza prendere i fascicoli di Thor, specie se del Dio del Tuono non ve ne frega niente.
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