Vanna Vinci è l’autrice italiana che conosco meglio, per aver letto quasi tutte le sue opere, e per aver incontrato ed aver scambiato con lei tante parole, alle tante Fiere in cui ci siamo incontrati.
L’ultima intervista fiume l’ho pubblicata su Fumettomania n. 17, marzo 2007. In questo speciale non poteva, quindi, mancare un approfondimento dedicato alle sue opere recenti a cura di Emilio Varrà, fondatore e Presidente dell’Associazione Culturale Hamelin, che annualmente organizza un’interessante festival, BilBOlbul, a Bologna.
Questo intervento è l’ideale continuazione della recensione Gatti neri cani bianchi pubblicata nel sito di Fumettomania (e nella stanza RELOAD del vecchio sito di glamazonia), nel 2011.
Anche questo articolo nasce dalla collaborazione con altri appassionati appartenenti a diversi siti web, e/o associazioni culturali per un libero scambio di idee sulla nona arte.
Nota bene: La provenienza della prima pubblicazione di questo articolo è: “Hamelin.Storie figure pedagogia” n. 28, marzo 2011; mentre le foto provengono dalla mostra organizzata da Hamelin a Bologna nel mese di marzo del 2011.
Mario Benenatu
PRESENTAZIONI
HAMELIN
Hamelin unisce vocazione pedagogica e promozione culturale lavorando con bambini e adolescenti attraverso la letteratura, il fumetto, l’illustrazione e il cinema.
Hamelin organizza percorsi di lettura e laboratori di fumetto per le scuole, conferenze e corsi di aggiornamento per insegnanti e bibliotecari, mostre e progetti didattici, workshop e incontri pubblici con autori.
Hamelin cura inoltre la rivista “Hamelin storie figure pedagogia” e BilBOlbul Festival internazionale di fumetto a Bologna.
http://www.hamelin.net / info@hamelin.net
Hamelin Associazione Culturale
via Zamboni 15 / 40126 Bologna
EMILIO VARRÀ
ha fondato nel 1996 Hamelin Associazione Culturale che lavora nel campo dello studio della letteratura per ragazzi, della promozione alla lettura, dell’organizzazione di mostre e eventi sul fumetto e l’illustrazione.
Autore e coautore di volumi dedicati alla opere di Twain, Kipling, all’analisi delle metafore d’infanzia, all’evoluzione degli ultimi venti anni di letteratura per ragazzi in Italia, dell’Enciclopedia dei ragazzi della Treccani, è tra i fondatori della rivista “Hamelin. Storie, figure, pedagogia”. Ha collaborato e collabora alle riviste “Lo straniero”, “Li.B.e.R.”, “Infanzia”
Insegna Archetipi dell’immaginario nel corso di Fumetto e Illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
SULLA SOGLIA.
I ROMANZI A FUMETTI DI VANNA VINCI
di Emilio Varrà
Raccontare l’adolescenza, o la prima giovinezza sempre più indistinguibile dagli anni che la precedono, è prima di tutto una questione di respiro. La capacità di sintonizzarsi con un ritmo interiore, pacato, sospeso, irregolare, come un soffio al cuore. Un ritmo che, al di là di scatti e sfrenatezze in superficie, è più vicino a quello del sonno che della corsa. Quello che giustamente aveva colto Bettelheim ne La bella addormentata nel bosco (1), considerandola come paradigma di quell’età. Lo stesso che magistralmente ha saputo rendere Gus Van Sant nei suoi film, con i rallenty, le interminabili camminate dei ragazzi nei corridoi della scuola, come sonnambuli. Le ultime storie di Vanna Vinci, escludendo la produzione parallela legata alla figura della Bambina filosofica, partecipano dello stesso respiro, del medesimo modo di procedere, a tentoni, nel mondo.
Aida al confine (Kappa Edizioni, 2003), i due volumi di Sophia (Kappa Edizioni, 2005 e 2007) e i due di Gatti neri Cani bianchi (Kappa Edizioni, 2009 e 2010) diventano, considerati in quest’ottica, un corpus unico, l’esplorazione di una particolare condizione dell’esistenza. E, visti nell’insieme, danno l’impressione di un gioco di ripetizioni e variazioni di vicende simili, come se ad ogni nuovo ciclo narrativo si tornasse al punto di partenza, con un andamento circolare, e si volesse provare di nuovo, per tentativi. Gli intrecci infatti presentano una struttura simile, con protagoniste ragazze che hanno superato da poco i vent’anni, che abbandonano per propria decisione il mondo al quale sono state legate fino ad ora e si tuffano in uno nuovo, senza davvero sapere dove si andrà a cadere, quale rotta tenere, se davvero non si naufragherà. Ma quello che più rimane nella memoria non sono gli accadimenti, piuttosto una timbrica, un’atmosfera sospesa che si costruisce con una stratificazione di azioni e soprattutto di riflessioni, di dialoghi e soprattutto di silenzi, di decisioni e soprattutto di attese.
Esitazione sembra essere la parola chiave per comprendere l’essenza di questi personaggi, spaesati e perplessi di fronte all’ampio spettro di possibilità che si pongono davanti a loro, una ricchezza che quasi paralizza, come nel trovarsi di fronte ad una pagina bianca e non sapere quali segni lasciare per primi. Il bianco, d’altronde, ha una forte valenza nell’opera della Vinci, inquietante piuttosto che rasserenante. Si legge in Aida al confine: “Il bianco mi ha fatto sempre paura… Più del nero. Il nero mi ha sempre dato l’idea di una cosa piena, il bianco no… Il bianco è vuoto.” Sono parole pronunciate da Aida, ma sono anche una dichiarazione di poetica. E vengono in mente le primissime pagine di Sophia, con la protagonista da sola sugli scogli della costa sarda, circondata dal bianco abbacinante di un sole canicolare, di una mare lattiginoso, di un vuoto che nessuna immagine o pensiero riescono a colmare.
Questa condizione costantemente esitante è la materia prima che dà forma alle figure, s’imprime nel segno che le delinea, con più ripassi di china, e rende i contorni meno netti, come un poco sfrangiati, non assertivi, non definitivi. Anche le espressioni e le posture di Aida, Sophia, Gilla, nella loro fissità quasi ieratica, rappresentano piuttosto la condizione di “chi sta per”, di chi è ancora tutto in potenza ma non ha ancora trovato l’atto e la parola per esprimersi. Esistenze sulla soglia, quindi, che compiranno azioni nelle loro avventure, che acquisiranno una nuova conoscenza di sé e del mondo fuori, ma che alla fine non saranno compiute. I finali di questi libri rimangono aperti, non hanno la perentorietà dei romanzi di formazione, piuttosto rappresentano una nuova sfumatura del paesaggio interiore di chi si trova su un confine, che a dar retta all’autrice non è una linea da varcare semplicemente, è piuttosto un non luogo da esplorare, in un procedere tra curiosità e nostalgie, tra scatti in avanti e desideri regressivi, tra slanci vitali e un’attrazione fortissima per la morte.
Il primo gesto di tutte le protagoniste è quello di un taglio rispetto alla vita precedente, che coincide con l’abbandono e la fine dichiarata di un amore, l’allontanamento dalla famiglia, la partenza per un altro luogo. Ed è in questo nuovo scenario che l’esitazione rivela anche tutta la sua preziosità: perché chi esita si lascia davanti uno spettro più ampio di libertà, si pone in ascolto verso tutto ciò che può accadere, è disponibile a farsi attraversare da altre presenze. La prima comunicazione che si instaura è con le città: Trieste, Bologna, Parigi, Roma sono creature vive, protagoniste anch’esse, ora presenze discrete sullo sfondo, ora in primo piano con il gioco di dettagli architettonici, di porte, di vicoli che lasciano solo immaginare un’uscita.
Le città di Vanna Vinci sono un sistema complesso e ribadito di soglie, incarnano paradossalmente un non luogo nonostante la piena riconoscibilità e la puntigliosa documentazione con cui sono ritratte. Per questo Aida, Sophia, Gilla vi si trovano bene, le sentono come loro sede naturale, quasi desiderano annullarsi o fondersi con esse, purché non le si consideri mai come mete o approdi, sempre solo luoghi di attraversamento.
Chi ha vent’anni ha sempre anche un’anima da flâneur, perché ne ha lo sguardo, quello di chi partecipa ma non appartiene ai luoghi in cui cammina, di chi è contemporaneamente dentro e fuori le situazioni.
Più complesso è il rapporto che si instaura con gli interni, perché lì il movimento è impedito, non si cammina più, si abita. E l’abitare per forza è anche un atto identitario, costringe a fare i conti con se stessi. Oggetti e presenze circondano i personaggi, esercitano le loro richieste e non si può fare finta di nulla. Il paesaggio architettonico si trasforma in paesaggio sentimentale: bisogna costruire un rapporto con ciò che ci circonda, creare nuovi legami che certificano senza appello l’abbandono di quelli passati, abituarsi alle cose e alle persone. Ed è qui che entra in gioco una dialettica centrale in queste opere: quella sempre instabile tra passato e futuro. Un passato a cerchi concentrici, che muove dalle memorie individuali dei personaggi principali, a quelle di famiglia, fino a toccare i recessi remoti della storia, dalla Grande Guerra alla Rivoluzione Francese, dalla storia secolare dell’alchimia agli anni ruggenti del Novecento. Presenze queste che stringono le protagoniste in un abbraccio insieme arricchente e pericoloso, prezioso per l’ampliamento di conoscenza ed esperienza che comportano, rischioso perché il passato può diventare un’altra forma di rinuncia, un altro pretesto per lasciare ogni tipo di ricerca, di costruzione di sé, e abbandonarsi a tempi non propri, ma più rassicuranti proprio perché già dati. Sophia e Gilla il passato se lo mettono letteralmente addosso, nella forma di vestiti d’epoca, vistosi ed eclatanti nella loro inattualità, eppure comodissimi per il nascondimento che procurano. Sono maschere, ma a lungo andare possono rivelarsi delle trappole, e diventare sudari se non le si toglie in tempo.
E i fantasmi entrano in scena davvero. Ci sono fantasmi veri e propri in Aida e Gatti neri. Ci sono uomini che grazie ai misteri alchemici hanno acquisito l’immortalità in Sophia. D’altronde l’esitazione è anche quella che Todorov aveva riconosciuto come cellula primaria e generativa del fantastico (2). Ma anche quando non ci sono veri e propri spettri, quando il paranormale non fa capolino, si è comunque immersi in un altrove totale. Non sono forse fantasmi anche la zia sessantenne e la cerchia dei suoi amici coetanei in Gatti neri, tutti immersi in una nostalgia per la giovinezza perduta e per l’irripetibile atmosfera degli anni Sessanta e Settanta che li rende ciechi, quando non ottusi, di fronte ai nuovi scenari del presente? Non si aggirano come spettri la cantante immortale, Lucas o Nicholas Flamel, in Sophia, perpetuamente scissi tra la noia per l’eternità e il desiderio di porvi fine e un attaccamento “insensato” alla vita? C’è tanta differenza tra loro e lo spettro della principessa Lamballe che si aggira per Parigi inconsapevole della propria terribile morte durante la Rivoluzione Francese? È un caso che la Marchesa Casati chieda a Gilla, con la snobistica nonchalance che la contraddistingue, se anche lei non sia solo uno spettro? E c’è tanta differenza tra lo spaesamento di Aida e quello dello zio Nino, scomparso prima della seconda guerra mondiale ai tempi delle leggi razziali, ma già “ucciso” dai traumi della Grande guerra? Tutti i personaggi vivono una condizione anche solo temporaneamente ectoplasmatica, sono creature della soglia. Ed è per questo che si incontrano.
La particolare natura di questi incontri è tanta parte del fascino delle storie di Vanna Vinci. Storie che si compongono, più che di accadimenti veri e propri, della stratificazione di dialoghi. Questi prendono letteralmente forma sulla pagina, nel senso che è soprattutto attraverso l’impostazione sempre mutevole delle tavole che il confronto tra i personaggi acquisisce spessore e senso, anche al di là delle parole pronunciate. L’utilizzo sapiente e poetico dell’unità di misura della vignetta, la sua forma e dimensione, la posizione e il taglio delle figure in primo piano all’interno di essa, la compresenza dei due dialoganti in uno stesso spazio o la loro più frequente separatezza in vignette diverse solcate dalla drammatica frattura del bianco della pagina, sono tutti indizi delle possibilità e modalità di incontro tra i personaggi. E ancora una volta è l’esitazione a prevalere, che qui perde la sua connotazione giovanile, psicologica o emotiva, per farsi dichiarazione solo sussurrata nei modi, ma impietosa nelle prospettive che delinea, sulla reale possibilità di comunicare con l’altro. Come a dire che fantasmi si è comunque gli uni agli altri, perché è impossibile una reale “com-prensione” reciproca. Non ci si può afferrare davvero e completamente, proprio come non si può toccare uno spettro. Ed è forse anche questa scoperta a spingere la protagoniste a cercare allora l’abbraccio di un “fantasma vero” o di chi comunque appartiene ad un tempo andato. Come se in quel caso l’incomunicabilità fosse un dato dichiarato in partenza, e per questo meno subdolo, meno doloroso. Sono questi i momenti, in tutti e tre i cicli narrativi, in cui le ragazze rischiano di perdersi per sempre, di lasciarsi catturare completamente da un cupio dissolvi, tanto dolce quanto fatale.
Ma proprio nel momento dell’abbandono assoluto, c’è una molla interiore che interviene, un istinto di sopravvivenza che salva e che riporta le protagoniste alla superficie del loro presente, si abbandonano i morti e ci si riaffaccia alla vita. Non sono happy end consolatori e banalizzanti, tutt’altro. Le vere difficoltà cominciano ora, con il futuro che non è meno confuso di prima, ma appare come meta inevitabile. Non c’è la sensazione di un’iniziazione compiuta, è solo uno dei tanti paesaggi della soglia. E viene il sospetto che non la si oltrepasserà mai.
(1) Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano, 1984
(2) Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 1983
Le opere citate di Vanna Vinci
Aida al confine, Kappa Edizioni, Bologna, 2003
Sophia la ragazza aurea, Kappa Edizioni, Bologna, 2005
Sophia nella Parigi ermetica, Kappa Edizioni, Bologna, 2007
Gatti neri Cani bianchi. Reminiscenze parigine, Kappa Edizioni, Bologna, 2009
Gatti neri Cani bianchi. Lungo la strada, Kappa Edizioni, Bologna, 2010
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