UNBREAKABLE, IL PREDESTINATO (2000)

0
112

testata

RIPROPOSTA

Dopo tante recensioni di fumetti internazionali di prim’ordine (quasi tutti statunitensi), proprio mentre sul web abbiamo avuto modo di vedere il primo trailer di Glass il nuovo film diretto da M. Night Shyamalan, ci spostiamo su un’ipotetica sala cinematografica per rivedere un suo precedente film, a mio parere stupendo, e ci leggiamo questa bella recensione.
Se la lettura sarà di vostro gradimento, condividete quest’articolo.
Mario Benenati


 

Unbreakable – Il Predestinato

Regia di M. Night Shyamalan.

Un film con Samuel L. Jackson, Bruce Willis, Robin Wright,

Spencer Treat Clark, Charlayne Woodard.

Cast completo

Titolo originale: Unbreakable.

Genere DrammaticoUSA, 2000, durata 110 minuti.

Recensione di Matteo “zapruder” Scarabelli

[Disclaimer]
Il seguente delirio è un compendio delle mie opinioni, niente di più e niente di meno. Valgono quanto le vostre.
Ah, a proposito, se non avete mai visto Il Sesto Senso o I Soliti Sospetti, vi sconsiglio vivamente di proseguire: vi rovinereste la visione di due ottimi film. Idem se non avete mai visto Unbreakable: questa non è propriamente una recensione.

Elijah Price ha dodici anni e un braccio al collo.
E` triste, scoraggiato, depresso.
Elijah Price soffre di una rara malattia genetica: Osteogenesi Imperfetta Tipo Uno, bei paroloni per una brutta realtà. Le sue ossa sono deboli, fragili come cristalli di Boemia. Per questo ha un braccio ingessato. Per questo i bambini lo chiamano “Mr. Glass“, “l’Uomo di Vetro“. Per questo è triste, scoraggiato e depresso. Così depresso, fino a cinque minuti fa, da esser pronto a giurare che non sarebbe mai più uscito di casa; ora siede su una panchina del parco giochi, grazie allo stratagemma di sua madre e alla tentazione di un regalo. Mentre scarta il regalo, vediamo la scena attraverso il suo sguardo. Sotto la carta (viola) un albo a fumetti, un comic americano; sulla copertina, l’eterna lotta. Ma per la fretta, o per puro caso, il fumetto è sottosopra. Mentre Elijah lo ruota, il nostro punto di vista lo segue, mantenendolo capovolto, discostandosi dalla visuale di Elijah fino ad essere diametralmente opposto a tutto, ad Elijah quanto al fumetto. L’albo si ferma; il nostro sguardo continua a ruotare, fino a sovrapporsi di nuovo a quello di Elijah.

Il cuore del film

Il film, il cuore del film, è tutto qui, racchiuso in questa scena densa di simboli. C’è la storia: la storia di Elijah, l’Uomo di Vetro, e del suo esatto opposto, l’infrangibile David Dunn; la storia antica del Bene contro il Male, del perfetto contro il deforme, di visioni del mondo eguali ed opposte; la storia di un eroe da fumetto, un eroe invincibile vestito di verde che si nasconde dietro la maschera del mite addetto alla security dello stadio di football, padre affettuoso e marito comprensivo, con tanto di nome dalla doppia iniziale. Ma c’è, più sottile, anche il modo di raccontarla: il fumetto americano e i suoi canoni, capovolti nella forma o nella sostanza, rovesciati e rivoluzionati fino a riportarli, paradossalmente, allo stato iniziale; e intanto, per buona misura, l’ancor giovane signora Price ci anticipa il finale a sorpresa.
Di film con sceneggiature da fumetto non è che se ne siano visti pochi: anche quando non sono adattamenti di storie e personaggi già esistenti, molti film d’avventura non sono che fumetti recitati da gente in carne ed ossa. Un esempio? Il filone lanciato da Henry Jr. “Indiana” Jones, che si riallaccia alla letteratura pulp di inizio secolo: non sarà fumetto ma ha un antenato in comune (un po’ come noi homo sapiens e gli orang-utan). E poi c’è sempre Darkman di Raimi.

Unbreakable guarda il fumetto

Ma Unbreakable guarda il fumetto dalla parte sbagliata, col titolo in basso e la costa sulla destra. Se il soggetto, la trama, è quella di un fumetto (speciale Numero Zero: le origini di Green-Football-Hooded-Security-Unbreakable-Bald-Sleepy-eyed-Man!), la sceneggiatura e i dialoghi sono quelli di un film: i tempi sono dilatati, le battute telegrafiche, i silenzi grevi e prolungati. Un fumetto con una splash-page ogni tre tavole, pagine e pagine senza un baloon, piatta e banale vita famigliare intervallata a poche avventure, interi numeri senza uno scontro o un confronto o una sorpresa o che: chi lo comprerebbe? E chi si metterebbe a far la fila per un film che sembra un fumetto, con le inquadrature incorniciate e riquadrate come vignette, le pose statiche anche nelle scene d’azione (la comparsa di Orange Man dietro la tenda è un piccolo gioiello), colori stampigliati addosso ai personaggi come didascalie, chiaroscuri violenti al limite del danno alla retina, villain logorroici i cui eloquenti, polisillabici macrovocaboli trascendono qualsivoglia comune fraseggio quotidiano?
Shyamalan rovescia tutti i luoghi comuni del film-fumetto, e ci riesce bene. Il risultato è un film che si lascia gustare una scena alla volta, senza fretta. I personaggi sono dipinti con pochi colpi di pennello, delineati e caratterizzati, unici come ideogrammi (o ieroglifici, se preferite). Le emozioni scivolano fuori dallo schermo, complice l’ottima colonna sonora di James Newton Howard (ma va a Shyamalan buona parte del merito: riguardatevi la scena della libreria, densa di frustrazione e depressione fin quasi a dar fastidio). I ritmi sono quelli della vita reale, del quotidiano: lasciano allo spettatore il tempo di entrare nella storia, di coglierne i dettagli, senza che si debba ricorrere a dialoghi didascalici (salvi i voiceover stupidamente imposti dall’adattamento italiano per tradurre l’inglese scritto) o zoomate e carrellate pacchiane.
Perché Unbreakable, per buona parte, è costruito come un gioco ad incastro, un complicato puzzle a più livelli e dimensioni. Alcuni incastri sono facili da trovare. Elijah Price, l’Uomo di Vetro: nasce riflesso da uno specchio; ricompare, adolescente, riflesso da un televisore; si presenta, adulto, riflesso da una lastra di vetro; lascia un biglietto da visita su un parabrezza; cammina aiutandosi con un bastone di vetro (viola). David Dunn, l’eroe mancato, accompagnato ad ogni passo dal senso di colpa di chi non sta facendo tutto quello che potrebbe (e Shyamalan insiste, mette il dito nella piaga). E ancora le mille coincidenze, i numeri che ricompaiono, il leitmotiv dell’immagine riflessa, del mondo capovolto.
Shyamalan è un maestro dell’inganno, come ha già dimostrato con The Sixth Sense. La trama di Unbreakable, così semplice e lineare, non può che essere un trucco. “E’ tutto troppo tranquillo… Stai in guardia!”, direbbe l’Eroe alla Fedele Spalla (nonché Pupillo, c’è da scommetterci). Anche il finale “a sorpresa” non è che uno specchio per le allodole: d’accordo, Elijah ha provocato disastri di proposito, e allora? Tutto qui?
Certo che no. Sappiamo già che Elijah è il cattivo. Si veste di nero e di viola (ma tu guarda!): niente colori patriottici, né rassicuranti verdi, né sfavillanti gialli-dorati. E’ a suo modo un essere deforme (deforme dentro, nelle ossa e nell’anima, dove non si vede… deforme e infido). La sua visione del mondo è per forza di cose distorta, obliqua come i capelli che porta, a rovescio come l’immagine riflessa da una lastra di vetro. E’ l’esatto contrario di David in ogni dettaglio, fino al colore della pelle (la qual cosa ha portato qualche anima bella a mormorare accuse di razzismo… accuse che, rivolte ad un tal Manoj Nellyattu Shyamalan dalla carnagione color rovere, fanno sinceramente ridere). E poi, ci sono i bambini. I bambini di questo mondo da fumetto travestito da mondo reale, che istintivamente intuiscono il Male e il Bene, che vedono al di là delle apparenze, che già sanno come vanno le cose, sanno chi dileggiare con nomignoli da uomo nero.
Dov’è la vera sorpresa, allora? E’ difficile, dice un vecchio proverbio, trovare un gatto nero in una stanza buia, soprattutto se il gatto non c’è. La sorpresa finale alla Twilight Zone, il rovesciamento di prospettive che ci fa improvvisamente render conto di aver appena assistito a due ore di menzogne o di false impressioni, Verbal Kint che smette di zoppicare e si sgranchisce la mano rattrappita: non c’è niente di tutto questo. La cosa vi sorprende?

Il finale

Il finale non è una sorpresa, è un coronamento, una logica conseguenza. Il mondo di David e di Elijah palesa pian piano la sua assurdità, la sua inverosimiglianza, la sua follia nascosta. Tiriamo un attimo le somme: David, l’eroico David dalla mantella verde, ha salvato due bambini (i genitori, niente da fare) da uno psicopatico (anche qui, come nel caso di Elijah, la deformità che un Jack Kirby avrebbe reso grottesca ed evidente è nascosta dalle metafore, ma in maniera più grossolana: Orange Man veste come un galeotto, e fa un mestiere che nella vecchia India sarebbe riservato ai pariah). Perché potesse arrivare a questo, perché potesse realizzare il suo potenziale inespresso, un aereo si è schiantato, un palazzo è bruciato, un treno è deragliato: centinaia di morti, di vittime sacrificali (una scopritrice di giovani talenti sportivi, un’insegnante di scuola, una ricercatrice nel campo della leucemia, un pediatra, un padre di numerosi figli… quanti bambini senza un affetto, senza una guida, senza una possibilità di cura in più?). Eccola qui la rivelazione, il vero paradosso, il mondo al contrario: nei fumetti bastano due morti, diciamo due coniugi Wayne, perché sorga un Batman qualsiasi a salvare centinaia di innocenti, e non viceversa; nei fumetti il male è l’ombra proiettata da chi ostacola la luce del bene (“Io ho fatto te, ma prima tu hai fatto me!” – “Non staremo andando un po’ sull’infantile?”), e non viceversa; nei fumetti, il bilancio finale non è così tragicamente in rosso. Ma il fumetto di Unbreakable continua ad avere il titolo in basso e la costa sulla destra.
La logica del fumetto, il mito dell’eroe buono invincibile, la convinzione di un bene e un male in bianco e nero (“Non si mescolano. Non c’è grigio”: ah, la saggezza degli schizoidi!), portano al paradosso. “Gli amici non sparano agli amici!”: non è solo comic relief, è l’ultima difesa, estrema, contro una logica folle. Joseph, il figlio di David, ne cade preda, e per poco non uccide suo padre a revolverate. Lo stesso David, alla fine, soccombe alla logica malata di Elijah, una logica fatta di coincidenze e di arrampicate sugli specchi, di passaggi logici inseriti ad hoc per giustificare questa o quella discrepanza. Il finale rivela la fondamentale fallacia del pensiero di Elijah, di David, del giovane Joseph, ne scopre i lati oscuri, e lascia intuire che forse le cose stavano diversamente già da prima.

Prima: ecco dov’è il finale a sorpresa. Distribuito lungo tutto l’arco del film, in brevi frammenti, impressioni, allusioni. Shyamalan, il nostro maestro dell’inganno, per una volta ha giocato a carte scoperte, ha confidato che saremmo stati noi stessi ad illuderci, insieme a David. Insieme a David che non ricorda se è mai stato malato, non ricorda di aver rischiato la vita in piscina (é la vecchia infermiera della scuola, una figura senza volto, a ricordarlo per lui), non ricorda il deragliamento a cui è sopravvissuto né l’incidente che gli ha stroncato la carriera. Ogni “rivelazione” è un ricordo distorto, alterato, o una “visione” di dubbia attendibilità (la stanza di Elijah è tappezzata di cianografie di ordigni esplosivi, una pistola su due è nera e argentata, e quel presunto spacciatore con la faccia da regista non aveva in tasca un bel nulla). Come David, come Elijah, come il defunto dottor Malcolm Crowe, noi vediamo e sentiamo solo ciò che ci fa comodo, che non infrange il nostro sogno di un mondo da fumetto in cui poter essere supereroi, o supercattivi. Che alla fine dei conti i poteri di David siano reali, o che non lo siano, fa poca differenza: assomigliano troppo al delirio di un pazzo criminale, e costano un senso di colpa che è ben peggio dell’inadeguatezza dell’eroe mancato.
E ora, un’inevitabile parola sui Grandi Confronti. Molti, all’uscita di Unbreakable, lo hanno molto leggermente paragonato a The Sixth Sense, probabilmente perché si aspettavano qualcosa di analogo. In generale, il tono dei commenti (e delle critiche, anche su riviste sedicenti “specializzate”) era del tipo “Shyamalan tenta di bissare la formula de Il Sesto Senso, ma non ci riesce”. Hm. E provare a considerare l’eventualità che non stesse provando a scrivere “Il Sesto Senso II: vedo la gente cattiva”? Dopotutto il signor Night non é un regista esordiente (scrive e gira film fin da ragazzino, sulle orme del suo guru Spielberg, e la sua prima opera distribuita nelle sale, Praying with Anger, risale al 1992). Anche qui c’è Bruce Willis? Sarà perché è bravo a recitare, quando lo dirigono bene (Twelve Monkeys docet). Anche qui c’è una coppia in crisi, e un bambino che ne sa più degli adulti? La filmografia di Shyamalan (di nuovo, come quella di Spielberg) ha genitori divorziati e bambini saggi ad ogni angolo: Joseph “vede” i talenti nascosti di suo padre, Cole vede “la gente morta”, Joshua Beal in Wide Awake mostra una consapevolezza quasi adulta (e William Denborough e la sua ghenga di Perdenti vedono pagliacci e palloncini nelle fogne di Derry, Maine… Qualcuno per favore metta in mano a Shyamalan It di Stephen King e lo costringa a farne un film, o una trilogia, magari, che ultimamente va di moda!). The Sixth Sense è una storia di fantasmi alla vecchia maniera, Unbreakable è un film di supereroi alla nuova maniera (…già che ci siamo, insieme a It passategli anche Watchmen, ché non si sa mai): perché dovrebbero essere così disperatamente uguali? Vatti a fidare dei pubblicitari…
Il secondo Grande Confronto, questo invece tutto circoscritto alla comunità dei fumettofagi, è quello con gli altri film del genere (in primis il quasi contemporaneo X-Men). Anche qui, ribadisco: se volete azione leggete Wolverine o Doonesbury? Se volete toni poetici e introspezione leggete Gaiman o Charles Shultz? Se volete sghignazzare preferite Rat-Man o L’Uomo Che Si Allunga a… voglio dire, i Fantastici Quattro? Ci sono fumetti e fumetti, film e film, e intersezioni diverse di generi diversi.
E con questo, la difesa ha finito.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.